Peter Drucker sostenne decenni orsono che la cultura mangia la strategia a colazione.
Circa vent’anni fa ho cominciato ad interessarmi professionalmente della cultura delle organizzazioni.
Ho insegnato “Cultura d’impresa” all’Ateneo.
E sono sempre stato convinto che per creare una cultura evoluta o quantomeno diversa nelle organizzazioni, fondamentale è l’esercizio della leadership.
Ma come impatta la leadership sull’evoluzione culturale dell’organizzazione? Come la può promuovere?
Vivo quotidianamente casi concreti, a vario livello, e constato che l’idea della diffusione della cultura innovativa, quando esiste, è sempre top-down.
E spesso non funziona.
Allora devo riportare ciò che scrive Aaron Dignan nel suo Brave New Work.
E’ stimolante, addirittura illuminante. E probabilmente scioglie l’enigma.
Vi svelo come.
“Di fronte alle tante possibilità di cambiamento, tutti si interrogano su come cambiare la propria cultura. Proprio la cultura, la parola più potente ed incompresa che richiama come una sirena, ed è all’inizio ed alla fine di ogni conversazione profonda sui successi organizzativi, non è vero? La cultura mangia la strategia a colazione, è più potente della strategia, ad anche più elusiva. Nel business cultura significa tutto e niente, per Seth Godin è la storia che ci autoraccontiamo.
Il ruolo che la cultura pare giocare nel successo e nel fallimento ha condotto alla diffusa credenza che è qualcosa che possiamo e dovremmo dirigere, qualcosa che possiamo cambiare. Ma c’è una incomprensione fondamentale su cosa è la cultura. La cultura non può essere controllata o designata, Emerge. Non accade alle persone, accade tra le persone.Nils Pflaeging spiega questo fenomeno imperscrutabile con una metafora potente: la cultura è come un’ombra, non la puoi cambiare, ma essa cambia costantemente. La cultura va solo letta, e basta.
Ciò nonostante, ogni anno i leader cercano il miracolo: fissare o cambiare le culture con PowerPoint e promesse. Spoileraggio: questa roba non funziona.
Parecchi anni fa, una impresa industriale di livello mondiale avviò un programma su valori e credenze, con un team di 10 persone (su 300.000) al lavoro. Per produrre 5 frasi, ci vollero anni di lavoro e milioni di dollari in attività interne verso i colleghi, invitandoli a vivere i valori. Alla fine resta snello per andare veloce non fu proprio seguito da tutti, e non si potevano biasimare. Una banalità non è un’epifania. Non si possono cambiare cuori e cervelli con un haiku.
Quando la cultura si dimostra troppo amorfa, ci si rivolge verso avversari più accessibili.i leader si chiedono se le persone sono sulle cose, e le persone si chiedono altrettanto dei leader. Così si azzarda un secondo miracolo: cambiare le singole persone. Ma di nuovo ci si imbatte in una incomprensione. Le persone sono complesse. Ognuna cresce e cambia nel proprio contesto, col proprio tempo. Benjamin Franklin lo disse per primo: considerate quanto è difficile cambiare voi stessi, figuratevi quindi che chance minime avete di cambiare gli altri.
Quindi, se non possiamo cambiare la cultura e nemmeno le persone, cosa possiamo fare?
Possiamo cambiare il sistema. Perché questo generi nuovi comportamenti collettivi.
Certo, ci introduciamo in territori inesplorati.
Là, dove ci sono i draghi ad aspettarci (…).
Per arrivare dove? Nei territori dove si compete non per essere i migliori al mondo, bensì per essere i migliori PER il mondo. Le potenzialità sono incredibili: un capitalismo ripensato, co-opetitivo, con un nuovo sistema di valutazione dei risultati.
Invece di vincere da soli, vinceremo tutti insieme”